Muro condominiale, ne va provata la proprietà prima di contestare addebiti

Il condominio può esser parte di una comunione con riferimento al muro di confine con la proprietà limitrofa e in caso di contestazione, l’interpretazione del contratto che ne darebbe causa non può essere sindacata in sede di legittimità, se non per date e limitate circostanze di diritto. Risolve così una controversia la Cassazione con l’ordinanza 12204 del 14 aprile 2022.

La vicenda
Il caso da cui sorge la controversia riguarda l’intervento edile per la manutenzione urgente di un muro di contenimento tra due proprietà (articolo 887 Codice civile), di cui una d’area condominiale e sulla conseguente richiesta di pagamento della metà del costo complessivamente sostenuto da parte del “comunista diligente” (che, nella fattispecie, era, per l’appunto, un condominio). In tal caso, la compagine dei condòmini chiedeva al vicino (costituito da un unico proprietario) il pagamento di una somma di circa quattordicimila euro; la richiesta pecuniaria, bocciata in primo grado, veniva accolta dal giudice del gravame per la metà del valore (circa settemila euro), e, in quanto tale, impugnata dal secondo dinanzi alla Cassazione per violazione delle norme sull’interpretazione del contratto di compravendita.

La proprietà del muro
Secondo il ricorrente la Corte di appello aveva erroneamente valutato la portata di una clausola contenuta in seno al citato “negozio” – laddove definiva il confine dell’immobile sino al «muro di sostegno verso la proprietà del condominio» – per cui il giudice a quo, avrebbe dovuto, piuttosto, affermare, in ossequio ai canoni ermeneutici dalla legge – e, segnatamente, a quello stabilito dall’articolo 1363 Codice civile-, che la predetta clausola era segno disvelatore della chiara ed univoca volontà delle parti che avevano sottoscritto il contratto di escludere il muro in questione dall’oggetto della compravendita (la cui trascrizione, peraltro, renderebbe tale esclusione opponibile a tutti i terzi, compreso il condominio che ha agito in giudizio). Il ricorso, in quanto tale, è stato però respinto. Nel giudizio di cassazione, infatti – così si riporta nel testo del provvedimento – il ricorrente che lamenti la mancata
applicazione del criterio di interpretazione letterale ha l’onere – che nella specie è stato ritenuto del tutto inadempiuto – di indicare, a pena d’inammissibilità della censura per difetto di specificità, quale sia l’elemento semantico del contratto che avrebbe precluso l’interpretazione letterale seguita dai giudici di merito e, al contrario, imposto una interpretazione in senso diverso (Cassazione 995 del 2021).

Conclusioni
In altri termini, il ricorrente che lamenti un errore nell’interpretazione di un contratto di tal fatta deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (nel corpo della motivazione, in punto, sono stati richiamati i seguenti precedenti: Cassazione 27136 del 2017; Cassazione 17168 del 2012 ; Cassazione 9054 del 2013). La conclusione ricavata dalla Suprema corte è stata inevitabilmente quella di tacciare come inammissibile il motivo di ricorso, in quanto, pur fondandosi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, si risolveva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa.

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